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“JOE BIDEN E LA GUERRA” È IL TITOLO DELL’AGENDA DEL NEO PRESIDENTE USA.

“JOE BIDEN E LA GUERRA” È IL TITOLO DELL’AGENDA DEL NEO PRESIDENTE USA.

Joe Biden e la guerra. E’ questo il titolo del prossimo serial che ci aspetta, non nel virtuale mondo del buonismo, ma sui teatri di mezzo mondo. Perché Joe Biden farà la guerra da qualche parte e con qualcuno? La risposta si chiama deep state. Il neo presidente arriva dal Delaware, da anni ormai sede centrale del deep state, non quello di Washington, che si può riassumere, con un termine italiano, in burocrazia incrostata, autoreferenziale e autoreplicante e attiva nella comunicazione, ma quello vero, quello introdotto nel linguaggio politico da Michael Lofgren e teorizzato, nel 2016, in un libro: Deep State. Mike Lofgren ha trascorso ventotto anni lavorando al Congresso, gli ultimi sedici come analista senior nei comitati per il bilancio della Camera e del Senato. Un’esperienza, la sua, che gli ha fornito uno sguardo privilegiato sui tagli fiscali di Bush, il Troubled Asset Relief Program, i soccorsi per l’uragano Katrina, la guerra al terrorismo, dibattiti sul bilancio del Pentagono e varie commissioni per la riduzione del deficit. Sempre più frustrato dallo stallo e dalla polarizzazione partigiana al Congresso, Lofgren ha lasciato il servizio governativo mentre la crisi del tetto del debito del 2011 ha raggiunto il culmine. Lofgren ha una laurea e un master in storia e gli è stata assegnata una borsa di studio Fulbright alle università di Berna e Basilea, in Svizzera. Ha completato il programma strategico e politico del US Naval War College.“L’assunto di fondo dell’ex membro dello staff repubblicano al Congresso – scrive in proposito Lawrence Wilkerson (Limes 11/2020) – è che in America esiste «una consolidata rete di interessi – tessuta non solo nel governo ma anche a Wall Street e nella Silicon Walley – che impone le decisioni a Washington in materia di difesa, politiche commerciali e priorità geopolitiche con poche considerazioni per le reali aspirazioni e necessità della popolazione». Uno dei maggiori esponenti di questo deep state è Richard «Dick»Cheney, “socio – scrive Lawrence Wilkerson – della sezione dello Stato profondo che afferisce al conglomerato degli appaltatori del comparto della difesa”. Del deep state è esponente di primo piano il nuovo Segretario di Stato Antony Blinken. Nel conglomerato degli appaltatori del comparto della difesa hanno una prevalenza i contractors (in altri termini i mercenari) sul personale militare propriamente detto. Il conglomerato degli appaltatori ha un solo interesse: fare guerre. Il deep state, così come lo descrive Mike Lofgren, è non solo governo, ma anche Wall Street e Silicon Walley. I social nati nella Silicon Walley hanno dimostrato recentemente tutta la loro protervia nel censurare il libero pensiero, cominciando dal bloccare gli account dello stesso Presidente Usa in carica. Wall Street ha dei dominus, come Blackrock, la più grande società di investimento nel mondo con sede a New York, che gestisce un patrimonio totale di quasi 8 000 miliardi $, di cui un terzo in Europa. Recentemente si è assistito, per la prima volta, ad un rapporto più stretto tra il mondo militare e un altro colosso: The Blackstone Group, una delle più grandi società finanziarie del mondo, specializzata nei settori di private equity, investimenti immobiliari, hedge funds, leveraged buyout e strategie di investimento. Il generale Dave Goldfein, al top dell’aeronautica Usa, andato in pensione a ottobre del 2020, ha annunciato di essere diventato senior advisor di Blackstone. In questo quadro, le prime dichiarazioni del nuovo Segretario di Sato Usa fanno capire che il Mar della Cina sarà uno dei teatri caldi dei prossimi mesi e che la guerra tecnologica con il Dragone continuerà, per stabilire l’egemonia occidentale sulle nuove tecnologie. Blinken ha definito il Dragone una “autocrazia tecno”, dicendo che “cerca di diventare, in effetti, il paese leader nel mondo: il paese che stabilisce le norme, che stabilisce gli standard. Se le techno democrazie o le tecno autocrazie sono quelle che definiscono come viene utilizzata la tecnologia – la tecnologia che domina tutte le nostre vite – penso che farà molto per dare loro forma ai prossimi decenni. Abbiamo un interesse molto forte nell’assicurarci che le democrazie tecnologiche si uniscano in modo più efficace, così che siamo noi a dare forma a quelle norme e regole”.Tony Blinken ha affermato, come riferisce Newsmax, che il presidente Donald Trump aveva ragione ad adottare un “approccio più duro” alle minacce della Cina. Antony John Blinken, detto Tony, è un politico statunitense che è stato Vicesegretario di Stato dal 2015 al 2017 e vice consigliere della sicurezza nazionale dal 2013 al 2015, sotto il presidente Barack Obama. Dal 2009 al 2013 è stato Consigliere per la sicurezza nazionale del vicepresidente degli Stati Uniti (ora presidente) Joe Biden.”Il presidente Trump – ha detto Blinken durante la sua audizione di conferma al Senato, come riferisce il New York Post – aveva ragione nell’adottare un approccio più duro alla Cina”. “Non sono molto d’accordo con il modo in cui ha affrontato la questione in diversi settori – ha aggiunto Blinken a proposito di Trump – ma il principio di base era quello giusto, e penso che sia effettivamente utile per la nostra politica estera”.Le affermazioni di Blinken fanno pensare che il confronto con la Cina sarà duro anche con l’amministrazione entrante. Blinken ha aggiunto il suo accordo con il Segretario di Stato uscente, Mike Pompeo, riguardo al trattamento da parte del governo cinese dei musulmani uiguri come “genocidio”. Inoltre, Blinken ha affermato che “c’è stato un forte e lungo impegno bipartisan a Taiwan” e il suo approccio diplomatico continuerà con “l’impegno a Taiwan” come “qualcosa a cui teniamo molto”.”Parte di quell’impegno – ha aggiunto Blinken – è assicurarsi che Taiwan abbia la capacità di difendersi dall’aggressione. E questo è un impegno che durerà assolutamente”.Uno dei teatri possibili di conflitto, pertanto, rimane quello dell’aera del Pacifico. Il confronto con la Cina, del resto, nasce da lontano. “La ragione è […] semplice. Quando tra il 1999 e il 2001 venne negoziato l’ingresso della Cina nella globalizzazione, cioè la sua ammissione nell’Organizzazione del commercio mondiale (Wto) – spiega Federico Rampini (La notte della sinistra – Da dove ripartire – Mondadori), la Repubblica popolare aveva un’economia poverissima, sottosviluppata, da vero Terzo Mondo. Non poteva reggere una concorrenza ad armi pari. Perciò furono disegnate norme speciali per lei, agevolazioni che le consentivano il protezionismo. Parolaccia per noi, tutela sacrosanta per loro. Il guaio è che le regole sono rimaste sempre quelle, ancora vent’anni dopo, mentre l’economia cinese ha fatto balzi da gigante e (anche grazie al furto di segreti industriali) in molti settori è avanzatissima. Tanto che oggi il problema più serio per gli americani non è il gigantesco avanzo commerciale cinese, ma l’ambizione di Pechino di conquistare la leadership nelle tecnologie: dalla quinta generazione delle comunicazioni (5G) all’intelligenza artificiale”. “Washington – continua Rampini – cominciò ad allertare le capitali alleate, da Roma a Berlino: attenzione alle infrastrutture telefoniche made in China vendute agli operatori telefonici occidentali, spesso pericolosamente vicine alle basi militari americane e della Nato. Con la transizione al 5G, che sarà il nuovo standard della telefonia mobile, la penetrazione di impianti cinesi nei nostri paesi rischierebbe di consegnarci a una vasta rete di spionaggio. L’Internet delle cose, come viene chiamato un futuro in cui dialogheranno fra loro tutte le macchine che usiamo grazie all’intelligenza artificiale, sarebbe ancor più vulnerabile al cyberspionaggio cinese”.“Cina e Stati Uniti – scrive sempre Rampini – sono effettivamente «in rotta di collisione», ma non per colpa del protezionismo di Trump. La crisi nei rapporti viene da lontano, sarà durevole, avrà ripercussioni globali anche nel dopo-Trump, chiunque gli succeda alla Casa Bianca. È la Cina ad applicare in modo sistematico il protezionismo e il sovranismo: discrimina tra imprese straniere e nazionali, «calpesta le norme della competizione e le leggi internazionali, viola i principi fondamentali della reciprocità». In campo tecnologico persegue disegni egemonici. L’accelerazione cinese verso una nuova ambizione espansionista e un approccio aggressivo viene da lontano: la grande crisi del 2008 convinse i dirigenti comunisti di Pechino che il loro modello autoritario fosse superiore alle liberal democrazie occidentali; con l’avvento di Xi Jinping nel 2012 la svolta verso il «trionfalismo nazionalista» si è fatta ancora più marcata. Questo ha coinciso con una pesante involuzione autoritaria del regime cinese, che non avviene solo ai danni dei propri cittadini o delle minoranze etniche in Tibet o Xinjiang, ma anche all’estero. La Cina sta «esportando metodi autoritari», nei modi in cui usa il proprio potere economico per ricattare e zittire le critiche”. Dell’esportazione dei metodi autoritari ne è un esempio l’Italia, dove il partito dei cinesi è ampio e trasversale e soregge il Governo Conte bis. E così, scrive Rampini, “mentre la sinistra urla il suo furore contro un vecchio padrone, sembra arrendersi docilmente a quelli nuovi”. Il fatto è che non si può stare con i piedi in due scarpe, come vorrebbe l’avvocato pugliese paracadutato a Palazzo Chigi, il quale nel suo discorso alla Camera ha messo gli Stati Uniti sullo stesso piano della Cina, sostenendo che l’Italia ha condotto anche “un’utile azione di raccordo fra i principali attori internazionali” tra i due Paesi. In Italia gli Usa hanno costruito o ammodernato importanti infrastrutture militari, ufficialmente in ambito Nato. In realtà sono, scrive Lawrence Wilkerson (Limes 11/2020), “postazioni militari –secondo alcuni piani di guerra, avamposti dai quali proiettare forza – funzionali alla penetrazione americana in Medio Oriente e Nord Africa. Più di due miliardi di dollari versati dal contribuente americano sono stati o verranno spesi per creare tale struttura di supporto nelle basi di Vicenza, Napoli, Pisa, Aviano e Sicilia. Ovviamente anche qui proliferano i contractors”. L’Italia con la Cina? Solo i papalini e i grillini insistono Joe Biden, dunque, sarà costretto da andare in guerra. Dove e come lo sapremo presto. Una nota finale. Come giustificherà Biden, all’America profonda, quella che non si riconosce nelle élite di Washington e della costa, il fatto che dovrà mandare i propri figli a morire? Accetterà la massa di americani che hanno votato Trump, che di guerre non ne ha fatte di vedere di nuovo i propri figli tornare in bare avvolte dalla bandiera a stelle e strisce? Sarà sufficiente la narrazione dei giornali main stream a far ingoiare la nuova era delle guerre “pacifiche” che esportano la democrazia?Mi piaceCommentaCondividi

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